Ruote perdute: il salto dell’ATS dai cerchi in lega alla F1

Domanda singolare: può una casa produttrice di cerchi in lega per auto competere come costruttore in Formula 1? La risposta è sì e per ben due volte. A patto che dietro ci sia un imprenditore tedesco di nome Günther Schmidt

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Tutte le vetture portate nel Mondiale di Formula 1 dalla tedesca ATS in otto stagioni di partecipazione al campionato (Copyright sconosciuto)

La metamorfosi della Penske 

Balziamo ancora una volta indietro agli anni Settanta, quelli dove sembrava possibile a chiunque entrare nella massima formula ed i concetti di proprietà intellettuale e «customer car» non erano argomenti per gruppi strategici e commissioni federali. Ah è vero, nemmeno esistevano. All’epoca il concetto era «benzina e cammina», nel bene e nel male. Poteva quindi accadere che una scuderia americana, la Penske, decidesse di uscire dalla massima formula proprio dopo la conquista del suo primo Gran Premio iridato in Austria nel 1976 e ci fosse un industriale tedesco disposto a rilevare le PC4 per esordire nel mondiale sotto nuovo nome. Nacque così la ATS (Auto Technisches Spezialzubehör), braccio sportivo dell’omonima azienda produttrice di cerchi in lega per Porsche, Volkswagen e AMG, il preparatore delle Mercedes-Benz «speciali». Il nuovo team non aveva la minima parentela con l’ATS italiana, meteora nel mondiale 1963: si trattava infatti di una squadra tedesca con sede a Bad Dürkheim non lontano dall’Hockenheimring e nata per promuovere un marchio che aveva già sponsorizzato parecchi eventi sportivi. Tutto partiva dalla mente del patron Günther Schmidt, personaggio fuori dagli schemi che vide nella massima formula un ottimo mezzo di comunicazione per pubblicizzare la sua azienda. Un po’ come molti anni dopo avrebbe fatto una certa Red Bull. L’avventura della gialla monoposto schierata dall’ATS iniziò decisamente bene: Jean-Pierre Jarier appena ingaggiato si piazzò sesto all’esordio nel Gran Premio degli Stati Uniti-Ovest 1977 continuando per il resto della stagione, mentre dal Gran Premio di Germania arrivò anche una seconda monoposto, dapprima per Hans Heyer poi per Hans Binder. Dietro l’esordio di Heyer esiste una storia tutta da raccontare. Il tedesco non riuscì a qualificarsi per la gara, ma la squadra fu lesta nel riuscire a schierarlo comunque sulla griglia di partenza. Non sappiamo se i commissari sportivi tedeschi furono molto sbadati o molto accondiscendenti, fattostà che si accorsero della presenza abusiva della seconda ATS solo al momento del ritiro per cause tecniche. Impensabile al giorno d’oggi (anche perche i non qualificati sono ormai un concetto inesistente), ma all’epoca la F1 era anche questo… (sotto Jarier con la PC4 nel 1977)

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Jarier al volante della Penske PC4 ribattezzata ATS nel 1977 (Copyright sconosciuto)

La metamorfosi della Penske 

Dall’anno successivo la squadra di Schmidt schierò la sua prima monoposto realizzata internamente, la HS1 progettata da Robin Herd (ex March) e portata in gara inizialmente da due piloti di valore come Jarier e Jochen Mass. Da lì in poi iniziarono anni particolarmente turbolenti per la piccola squadra tedesca. Solo nel 1978 si alternarono al volante anche Alberto Colombo, Keke Rosberg, di nuovo Binder, Michael Bleekemolen e infine Harald Ertl e venne portata in gara una seconda vettura, la D1, che non portò alcun risultato utile alla squadra. Il turn over procedeva non solo per i piloti ma anche per i tecnici: nel 1979 arrivò la D2 progettata da Giacomo Caliri, ma Hans-Joachim Stuck portò al quinto posto nel Gran Premio degli USA-Est la D3 progettata da Nigel Stroud. Storia simile anche nel 1980: Marc Surer e Jan Lammers guidarono le D4 progettate da Gustav Brunner senza ottenere punti. L’unico risultato fu colto dallo svizzero: la frattura di entrambe le caviglie.

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Jan Lammers tenta di spremere qualcosa di buono dalla sua ATS D4 sulle strette strade di Montecarlo nel 1980 (Copyright sconosciuto)

Un singolare sostenitore

La storia della squadra tedesca proseguì senza fermare la continua girandola di nomi tra piloti e tecnici che si alternavano di continuo. Il 1981 vide il ritorno di Lammers ed un nome nuovo, quello dello svedese Karl Edward Tommy Borgudd, per gli amici «Slim». Quest’ultimo assicurò alla squadra un sostegno alquanto singolare: quello degli ABBA. Avete capito bene, stiamo parlando proprio del gruppo musicale di «Mamma mia» e «Fernando» che decorò con il suo logo le fiancate delle HGS1 firmate da Hervé Guilpin, ex progettista della Ligier.  L’accordo era stato reso possibile poichè Borgudd non era soltanto un pilota ma anche un ottimo batterista che godeva di grande stima da parte di Björn Ulvaeus, cantante e chitarrista il cui nome era appunto una delle lettere iniziali della sigla ABBA. Non si trattava di una vera sponsorizzazione, bensì di una mossa che aveva il solo scopo di attrarre l’attenzione degli sponsor verso l’ATS a partire dal Gran Premio di San Marino. L’avventura del batterista-pilota decollò solo in parte: riuscì a cogliere un insperato punto mondiale grazie al sesto posto conseguito a Silverstone, ma la sua esperienza in Formula 1 finì dopo una quindicina di gare ed una raffica di non qualificazioni.

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La ATS HGS1 di Slim Borgudd mostra sulle fiancate il logo di un inatteso sostenitore: il gruppo musicale svedese ABBA (Copyright sconosciuto)

Una girandola senza sosta

L’ATS arrivò così al 1982 con l’ennesima nuova coppia di piloti al volante delle HGS1 evolute in D5: il cileno Eliseo Salazar e il tedesco Manfred Winkelhock. Quest’ultimo fu il pilota che legò quasi interamente la sua carriera in Formula 1 alla squadra di Schmidt, rimanendo a Bad Dürkheim per ben tre stagioni: un record per il team. La scelta di Winkelhock fu figlia anche di una svolta improvvisa ed insperata. Per il 1983 infatti, Schmidt mise a frutto le sue numerose conoscenze nel mondo automobilistico tedesco ottenendo i fantastici motori turbo della BMW. e concentrò le risorse su una sola vettura: la nuova D6 nata nuovamente sotto la guida di Gustav Brunner. Si trattava di una monoposto finalmente innovativa e caratterizzata dall’assenza di carrozzeria la cui funzione era svolta dal telaio stesso che si mostrò ben presto velocissima in qualifica. Peccato che i punti si marchino con i risultati in gara ed a mancare fossero proprio questi: la scarsa affidabilità, figlia dell’assenza di stabilità nel gruppo dei tecnici, fu il grave difetto della vettura.

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Manfred Winkelhock al volante della ATS D6 a Montecarlo; veloce in prova, inaffidabile in gara (Copyright sconosciuto)

Anno nuovo, vita vecchia

Anche l’anno successivo la storia del team non cambio con l’arrivo della D7, evoluzione della vettura precedente. Il carattere non facile del titolare provocava continui cambiamenti nello staff (anche Brunner uscì dall’organigramma prima del via della stagione) e tutto ciò non consentiva di raggiungere la tranquillità necessaria alla risoluzione dei problemi in pista. I ritiri continuavano ma accanto alla «bandiera» del team Winkelhock venne preparata una seconda monoposto per un giovane che aveva appena esordito nel suo Gran Premio di casa in Austria. Questo promettente austriaco si chiamava Gerhard Berger ed al suo secondo Gran Premio in quel di Monza conquistò un promettente sesto posto, mentre il suo compagno di squadra dopo l’ennesimo ritiro per un guasto al cambio salutò la squadra. Purtroppo per l’ATS il risultato di Berger fu del tutto ininfluente. Secondo il regolamento dell’epoca infatti era possibile partecipare alle gare con una vettura senza iscriverla al campionato, ma gli eventuali punti raccolti da questa vettura aggiuntiva non sarebbero stati assegnati alla squadra. L’ ATS aveva scelto di non iscrivere al mondiale la seconda vettura, ma la scelta si rivelò drammaticamente sbagliata. Ma fu solo l’anticamera della fine per il team tedesco. A fine anno la BMW, alla luce degli scarsi risultati figli di una discutibile gestione del team da parte di Schmidt, ritirò il suo appoggio preferendo legarsi all’ Arrows portando con sé il pupillo Berger. Ciò significava semplicemente lo scioglimento della scuderia di Bad Dürkheim e l’epilogo per l’avventura di Schmidt nella ATS Wheels, che infatti terminò di lì a poco. Ma il manager tedesco non poteva chiudere con la massima formula in maniera così amara e si rilanciò ben presto in un’altra impresa. Ma questa è un’altra storia, che potete scoprire in altro post.

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Un giovane austriaco si mette in luce con l’ATS D6 a fine 1984. Si chiama Gerhard Berger e sarà destinato ad una lunga carriera in Formula 1 (Copyright sconosciuto)

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