Ruote perdute: la vita in salita della March 2-4-0

Sei è meglio di quattro

A metà anni settanta il mondo della Formula 1 venne sconvolto da un arrivo inatteso: la celebre Tyrrell P34 a sei ruote che ancora oggi affascina gli appassionati. Dopo la memorabile doppietta al Gran Premio di Svezia 1976 però la monoposto non ottenne i risultati sperati e l’annata successiva fu caratterizzata da un lento declino. Due furono i problemi principali: la Goodyear non aveva effettuato un lavoro di sviluppo specifico per i piccoli pneumatici anteriori ed il complesso delle sospensioni e doppi bracci di sterzo aveva provocato sulla monoposto un notevole aggravio di peso sull’avantreno tale da compromettere il bilanciamento dell’intera vettura. Non proprio un successo quindi, ma a pochi chilometri di distanza qualcuno decise di fare tesoro delle esperienze della squadra del «Boscaiolo» elaborandone i concetti.

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Il box Tyrrell nella deludente stagione 1977 (Copyright Sconosciuto)

Un generoso posteriore

Presso la sede della March Engineering a Bicester il progettista Robin Herd aveva seguito da vicino l’esperimento P34 ed alla fine della stagione 1976 giunse alla conclusione che il concetto delle quattro ruote anteriori sterzanti e due posteriori motrici poteva essere un vicolo cieco. Inoltre valutò anche come il miglioramento aerodinamico ottenuto con una ridotta sezione frontale fosse stato in gran parte annullato dalle gomme posteriori di diametro 24″ che rappresentavano ancora il 30-40% della resistenza totale della vettura. La soluzione per Herd fu quindi semplice: aggiungere altre due ruote al posteriore ottenendone quattro motrici! L’ingegnere britannico elaborò su queste basi il progetto per una monoposto a sei ruote tutte da 16″, dimensione del normale pneumatico anteriore. L’idea era di eliminare i problemi di sviluppo per gomme di diametro specifico «pulendo» il flusso d’aria che investiva l’ala al retrotreno, ottenendo al contempo la medesima superficie di contatto al suolo rispetto a dei pneumatici posteriori tradizionali. Herd, mutuando la definizione dal mondo ferroviario, chiamò questo schema «2-4-0»: due ruote in testa, quattro motrici, zero posteriori. Questa monoposto riportava quindi in Formula 1 anche il concetto del «four wheels drive», brevemente sperimentato da Lotus e Matra tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta su F.1 a trazione integrale ma con sole quattro ruote. I vantaggi al momento di scaricare a terra la potenza distribuendo la trazione non più solo sulle ruote posteriori portavano alla riduzione del sovrasterzo ed un consumo più uniforme delle coperture rendendo anche più semplice la guida su circuiti tortuosi e con scarsa aderenza ben prima che fosse l’elettronica a pensarci.

Una scelta tecnica di questo tipo comportava tuttavia non trascurabili aspetti negativi costituiti dall’aggravio di peso, dalle complicazioni costruttive e dalle perdite di potenza causate dall’aumento degli attriti tra un numero maggiore di parti in movimento. Il progetto March nasceva non sullo schema classico sperimentato dalle altre scuderie con un albero di trasmissione che collegava i differenziali posteriore ed anteriore, ma spostando tutto il sistema al retrotreno. Herd infatti decise di utilizzare la scatola di un normale cambio Hewland DG400 a cinque rapporti montato in posizione consueta in cui l’albero del pignone veniva collegato tramite un giunto a manicotto ad un secondo albero, Quest’ultimo azionava il differenziale del secondo asse, distribuendo così la trazione sulle quattro ruote del retrotreno. Oltre alle criticità già note per gli altri progetti «4WD» si sommava cosi anche la non semplice sincronizzazione dei meccanismi interni alla trasmissione. La semplice sostituzione degli ingranaggi costituiva già in sé una notevole complicazione dato che si richiedevano quasi sessanta minuti di lavoro a fronte dei normali venti, mentre l’aggravio di peso di quasi 50 chilogrammi si dimostrò superiore a quanto previsto. Nonostante gli evidenti risvolti problematici il progettista affermava di essere persuaso che con un normale lavoro di realizzazione e messa a punto si sarebbe potuti arrivare a prestazioni soddisfacenti, compensando le difficoltà con i vantaggi in termini di penetrazione aerodinamica e trazione.

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Una delle prime immagini della March 2-4-0 apparsa sulla stampa specializzata (Copyright Sconosciuto)

Messaggi promozionali

Herd non era il solo ad avere seguito con attenzione l’evolversi del progetto Tyrrell P34. Anche un altro socio fondatore della March studiava da vicino quanto succedeva nel team del «Boscaiolo», soprattutto dal punto di vista della visibilità mediatica che la vettura aveva garantito alla scuderia. Stiamo parlando di quel Max Mosley che tre lustri dopo sarebbe diventato presidente FIA, ma che a metà anni settanta era ancora un ex pilota diventato socio fondatore della casa di Bicester. Osservando quanto accaduto in Tyrrell, con la Elf che aveva finanziato la costosa realizzazione della «sei ruote» venendone poi ampiamente ripagata in termini pubblicitari, Mosley, sempre attento a qualunque idea potesse rimpinguare le casse di casa March, fiutò subito che l’innovativa soluzione tecnica proposta da Herd avrebbe assicurato al team un’attenzione che i risultati sportivi conseguiti nella stagione 1976 non potevano lontanamente portare per attirare nuove sponsorizzazioni. Max appoggiò quindi immediatamente il progetto proposto dal suo socio ingegnere, ma sempre con un occhio al portafoglio.

Per non pesare eccessivamente sulle casse della Casa, la vettura venne preparata adattando un telaio della 761 sul quale innestare il nuovo posteriore per utilizzare ogni possibile ricambio disponibile in fabbrica. Così facendo qualsiasi «chassis» prodotto da March l’anno precedente avrebbe potuto essere convertito facilmente alla nuova soluzione nel caso in cui il concetto si fosse dimostrato valido, abbattendo i costi. Herd, che aveva previsto di unire le scatole dei due differenziali con una flangia imbullonata ad essi, era ben conscio dei maggiori sforzi che l’aggravio di peso avrebbe causato alla struttura insieme alle forti torsioni che si sarebbero concentrate nella zona di collegamento. Per ovviare al problema aveva previsto molte nervature di rinforzo sulla fusione della scatola del cambio che vennero eliminate al momento della realizzazione pratica per non complicarne troppo la forma. Fu un grosso errore, come vedremo in seguito.

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La “2-4-0” in pista a Silverstone per il primo test. Come si può notare dai colori, il telaio era uno dei telai utilizzati nella stagione 1976 da Vittorio Brambilla (Copyright Sconosciuto)

Torsioni pericolose

La vettura venne costruita rapidamente e nel dicembre 1976 venne rivelata alla stampa prima di essere portata sul circuito di Silverstone per una prova a pochi giorni dal Natale con Howden Ganley al volante. Immediatamente si palesarono i problemi temuti da Herd: dopo il primo giro il carter del cambio si piegò rendendo inutilizzabili gli ingranaggi. Non si potevano trovare soluzioni immediate: era necessaria una fusione più robusta. Anche lo scopo pubblicitario alla prima occasione sembrò fallire: nelle foto diffuse la monoposto apparve completamente bianca, mentre alla presa di contatto con la pista la livrea risultò essere un «cocktail» di colori visti nella stagione precedente. La squadra riprese a lavorare sulla «2-4-0» e due mesi dopo, nel febbraio 1977, fu possibile riportare a Silverstone la monoposto con Ian Scheckter al volante. Questa volta non si trattò di una semplice messa in moto ma di un vero evento organizzato per mostrare la nuova nata alla stampa specializzata. L’auto venne infatti decorata nei colori bianco-blu del munifico sponsor «tabaccaio» Rothmans che sosteneva il sudafricano, pilota titolare per la casa di Bicester ed incaricato di svolgere il test. Per aumentare ancor più la portata spettacolare della giornata, la stessa Rothmans organizzò un’esibizione di una pattuglia acrobatica aerea per divertire la piccola folla di giornalisti e fotografi presenti, quasi a distogliere l’attenzione verso quella che doveva essere la ragione della loro presenza sul circuito del Northamptonshire. La prova vera e propria della «2-4-0» si limitò a due serie di tre giri l’una sul circuito lungo inumidito dalla pioggia con Scheckter che vi aveva corso solo al volante di una Formula Ford. Non esattamente un test impegnativo per un’auto di Formula 1, ma eccessivo per la sei ruote di casa March: dopo soli tre giri buona parte dell’olio lubrificante della trasmissione era già trafilato dalla zona di collegamento. Le ruote posteriori non sterzanti erano sottoposte a forti componenti laterali delle forze applicate su di esse nella percorrenza delle curve. Le risultanti di tali forze portavano a torsioni applicate sui bulloni della flangia di collegamento tra i differenziali così intense da allentare i fissaggi. Un vero disastro da un punto di vista tecnico, ma Mosley ed Herd risultarono ben soddisfatti per differenti motivi.

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La March “2-4-0” in livrea Rothmans ed il nome del suo nuovo pilota. Ian Scheckter (Copyright Sconosciuto)

Come centrare gli obiettivi

Mosley era riuscito ad attirare sulla March l’investimento cospicuo della Rothmans con un notevole ritorno d’immagine visto che la vettura aveva conquistato la copertina del settimanale specializzato Autosport garantendo un’insperata visibilità ai finanziatori. Contemporaneamente la Scalextric, storica produttrice di modelli «slot-cars», acquistò i diritti per produrre e commercializzare una replica della monoposto in scala 1/32 per le sue autopiste elettriche portando altro denaro fresco in cassa. Herd invece, al di là delle dichiarazioni ottimistiche ad uso e consumo della carta stampata, aveva ben chiaro da esperto progettista quale era che i problemi tecnici della «2-4-0» non potevano essere facilmente risolti. Infatti il suo progetto aveva ben altri intenti. Poco prima della realizzazione della vettura la CSI (al tempo organo sportivo della FIA) aveva iniziato ad effettuare misurazioni sulle monoposto di Formula 1 con l’intenzione di limitarne la lunghezza a 4,5 metri, misura che costituiva la media del parco auto impegnato al tempo nei gran premi. Intuendo la manovra dei federali, Herd giocò d’anticipo con la sua «2-4-0» ovviamente di dimensioni ben maggiori e frettolosamente presentata. L’intenzione del progettista inglese era quella di forzare la mano sulla CSI per ottenere l’aumento della lunghezza massima regolamentare in vista di altri progetti che aveva in cantiere, ben più tradizionali e gestibili. In ogni caso dopo lo spettacolare evento di Silverstone la «2-4-0» sparì dai radar ed il telaio del test riapparve in pista il giugno successivo a Zolder riconvertito ad una configurazione 761 standard con sole quattro ruote. Tuttavia la storia della March «2-4-0» non era finita quel giorno.

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Un modellino “slot” della 2-4-0 prodotto dalla Scalextric. L’unica March a sei ruote acquistabile oggi (Copyright Sconosciuto)

Una vita in salita

Nel 1979 il concetto espresso da Herd fu ripreso dal pilota britannico Roy Lane, specialista delle cronoscalate nazionali. Quest’ultimo aveva acquistato il telaio di una March 771 e vi installò una trasmissione 2-4-0 opportunamente migliorata con i consigli dello stesso Robin Herd, che evidentemente credeva in possibili applicazioni della sua «creatura» su percorsi più brevi e bisognosi di trazione. Dato che la vettura era nata in origine come una semplice riconversione economica del telaio standard da effettuarsi in officina, Lane sarebbe stato facilmente in grado di montare il retrotreno modificato sulla sua monoposto. L’idea fu azzeccata visto che potendo contare sulle quattro ruote motrici posteriori con opportuni rinforzi agli organi si trasmissione, Lane colse la vittoria in diversi eventi con la sua 771 / 2-4-0 a partire dalla gara di Wiscombe Park. Purtroppo nel corso della stagione si palesarono nuovamente diversi problemi di non facile gestione e l’intraprendente pilota inglese fu forzatamente costretto a ripristinare la configurazione standard a quattro ruote. Cosa sarebbe stato della March «2-4-0» equipaggiata con una trasmissione opportunamente realizzata e con l’adozione dei principi dell’effetto suolo che si stavano affermando al tempo in Formula 1 non possiamo saperlo. Oggi sappiamo solo che l’inconsueta monoposto, riportata alla configurazione a sei ruote, è conservata nella collezione Louwman a L’Aia, nei Paesi Bassi. A noi comuni mortali invece non resta che cercare qualche raro modellino Scalextric di qualche decennio fa.

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Roy Lane con la sua March 771 convertita al concetto “2-4-0” in una salita britannica (Copyright Sconosciuto)

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